Alla fine di marzo sono stati depositati gli esami autoptici effettuati sul corpo di Valentina Milluzzo, morta il 16 ottobre del 2016 nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania. Li hanno resi pubblici, alcuni giorni fa, i suoi genitori durante la trasmissione Storie Vere (Rai 1). Valentina è morta per “mancato tempestivo riconoscimento della sepsi; mancata instaurazione tempestiva di antibioticoterapia efficace; mancata raccolta di campioni per gli esami microbiologici; mancata tempestiva rimozione della fonte d’infezione (feti e placenta); mancata somministrazione di unità di emazie lavate durante l’intervento del 16 ottobre 2016”. I familiari hanno testimoniato che, nel suo ultimo giorno di vita, Valentina peggiorava di ora in ora tra atroci sofferenze ma che secondo il medico non sarebbe stato possibile intervenire finché si fosse sentito il battito cardiaco dei feti. L’ospedale ha sempre negato questa circostanza ma i genitori, la sorella e il marito di Valentina hanno sempre confermato la loro versione dei fatti. Quando ne scrissi ad ottobre mi venne alla mente la morte di Salavita Halappanavar, una giovane donna incinta che nel 2012 morì di setticemia alla clinica Galway University di Dublino, dopo tre giorni di agonia, senza che i medici inducessero l’aborto in ossequio alla legge irlandese che vieta qualunque intervento fino a che si avverte il battito cardiaco del feto. In Italia vige un’altra legge: l’obiezione di coscienza è prevista nella legge 194 solo in caso di interruzione volontaria di gravidanza (non era il caso di Valentina) e comunque deve essere garantita alle donne l’assistenza medica. Possono obiettare i ginecologi ma non intere strutture.
Lisa Canitano, ginecologa e presidente di Vita di donna, riceve ogni giorno mail da parte di donne che denunciano la violazione dei loro diritti, in un’intervista rilasciata nei giorni seguenti la morte di Valentina, ha ricordato la vicenda di una donna incinta ricoverata a Roma in un ospedale cattolico in seguito alla rottura del sacco amniotico che dovette andare in Grecia, pagando 4mila euro, perché i medici, tutti obiettori, non intervenivano. Un episodio inquietante visto che siamo in Italia non in Irlanda o in Polonia e fatti come questi non dovrebbero verificarsi nemmeno negli ospedali di ispirazione religiosa: i diritti delle donne, la loro salute e la loro vita vanno salvaguardati a prescindere dalla vita del feto. Si spera che sulla sua morte di Valentina venga fatta piena luce perché i familiari hanno diritto ad una risposta chiara che sgombri il campo da ombre e dubbi. “Mia sorella aveva la pressione bassa, collassava, aveva 34 di temperatura e gli occhi gialli. Soffriva da ore e chiedeva di essere sedata perché tanto sarebbe morta ma almeno voleva smettere di soffrire”, mi ha raccontato ieri Angela, la sorella di Valentina per poi ripercorrere dolorosamente i lunghi e difficili mesi trascorsi dalla morte della sorella, il calvario di una famiglia devastata da un lutto inaccettabile. Una figlia, una moglie e una sorella morta in un luogo dove doveva ricevere assistenza e cure. “Ancora non ce ne rendiamo conto, mi ha detto, Valentina era giovane e voleva dei bambini. Durante le sue ultime ore nessuno ci aveva detto della gravità della situazione, ci siamo affidati ai medici e solo alla fine ci dissero che la situazione era gravissima. Ora abbiamo il dovere di batterci per lei, perché quello che le è capitato non accada ad altre donne”.
Durante la trasmissione Storie Vere, i genitori di Valentina hanno detto che i medici parlarono di una banale infezione da candida e poi di una colica renale: “Mia figlia mi disse mamma, sto morendo. Lei si è accorta che moriva e i medici no?”, chiede Giusy Milluzzo, mamma di Valentina, senza avere risposta. Ebbe un ruolo l’obiezione di coscienza o fu un caso di malasanità in cui una donna è stata lasciata senza adeguata assistenza e incredibilmente la sepsi non è stata diagnosticata?
La Procura della Repubblica di Catania nei giorni successivi alla morte di Valentina sostenne che “l’aspetto più proficuo sotto il profilo investigativo riguarda cosa è stato fatto o non è stato fatto nei diciassette giorni di ricovero” relegando così in secondo piano l’aspetto dell’obiezione di coscienza, eppure tra le cause di morte c’è anche il ritardo nell’estrazione dei feti e della placenta e c’è la testimonianza dei familiari di Valentina che pesa come una pietra: la dichiarazione di un medico che si diceva obiettore, in un reparto dove tutti i medici erano obiettori.