Il 14 agosto sul blog Donne delle realtà è stato pubblicato Sull’ autobus, con la donna scappata dal marito cocainomane che la massacra di botte, di Paola Ciccioli. E’ il racconto di una donna vittima di violenza. L’ho letto con molto interesse fino al punto in cui la giornalista spiega che cosa è accaduto dopo che la donna si è rivolta ad un Centro antiviolenza. Riporto il brano del post: “Sono appena stata al Centro Antiviolenza e mi hanno detto che presenteranno la denuncia alla Procura della Repubblica. Accidenti, la denuncia non ci voleva. Adesso, come faccio?…Sono arrivata questa mattina presto in treno. Poco dopo la stazione ho visto una chiesa, sono entrata, c’era la messa. Ho aspettato che finisse e poi sono andata a parlare con una suora. Le ho spiegato di mio marito, delle botte, che sono scappata. Le ho chiesto se poteva aiutarmi anche a trovare un posto per andare a dormire. E la suora mi ha detto: Certo. Poi mi ha dato l'indirizzo del Centro antiviolenza e ci sono andata subito. Ma adesso parte la denuncia, manderanno i servizi sociali per i miei figli. Lui se la prenderà con me, dirà che ho sfasciato la famiglia. Come faccio? Cosa succederà? Ho paura".
Qualcosa non torna. E’ un peccato che la giornalista non abbia saputo a quale Centro Antiviolenza si fosse rivolta la donna anche se è comprensibile che fosse tesa ad ascoltare piuttosto che a prendere informazioni. Credo che questa storia sia emblematica per comprendere la differenza metodologica dei Centri antiviolenza aderenti a D.i.Re, che in Italia hanno fatto emergere il problema della violenza e che operano mettendo la donna al centro dei percorsi. La vicenda è accaduta a Milano e dubito fortemente che il Centro Antiviolenza in questione possa essere la Casa delle Donne Maltrattate di Milano. Un Centro antiviolenza non presenta denunce di propria iniziativa per molti motivi. L’autorità giudiziaria persegue i reati quando viene fatta una querela di parte (in questo caso è solo la persona interessata che la può fare) oppure procede d’ufficio: dipende dalla gravità del reato. Il reato di maltrattamento, ad esempio, è perseguibile d’ufficio. In un Centro antiviolenza la denuncia penale è una scelta della donna che non deve essere coartata o condizionata. Il consenso della donna e la sua intima adesione ad un percorso di uscita da una relazione violenta sono condizioni necessarie per insaturare una relazione di aiuto. Le donne devono poter esprimere la loro autodeterminazione. Nel racconto la donna sembra aver subìto l’azione penale e commenta la sua storia come se fosse stata abbandonata a se stessa. In un Centro la prima preoccupazione è trovare l’ospitalità per la donna insieme ai figli, lasciarle il tempo di decidere se denunciare e cosa fare, spiegando passo passo cosa può fare un Centro e cosa le accadrà. E ancora: è del tutto inusuale che fin dal primo incontro di accoglienza una donna sporga denuncia penale. Nel primo incontro la donna è accolta ed ascoltata, prima di agire (a patto che non ci siano situazioni di imminente pericolo)si deve capire. In secondo luogo, le operatrici dei centri antiviolenza non sono pubblici ufficiali e non possono fare segnalazione di reati presso la Procura. Sono tenute all’anonimato e alla segretezza circa quello che viene loro rivelato. La modalità di intervento di questo ‘Centro antiviolenza’, pare essere quello di un luogo istituzionale dove operano psicologhe che in qualità di pubblico ufficiale possono segnalare alla Procura della Repubblica eventuali reati e procedere con l’immediato coinvolgimento del servizio sociale per avviare procedure che riguardano i figli o le figlie. I luoghi istituzionali o semi-istituzionali fondano i loro interventi sull’applicazione di procedure rigide e non sul riconoscimento dell’autodeterminazione e della soggettività della donna. In un luogo istituzionale il progetto è proposto (o talvolta imposto) alla donna, in un Centro Antiviolenza la donna è la protagonista del proprio progetto di allontanamento da una relazione violenta. Purtroppo in Italia non esiste ancora una chiara definizione di Centro Antiviolenza. Un problema che ha reso possibile quella distribuzione di fondi a pioggia, recentemente decisa in conferenza Stato Regioni, che ha sollevato le proteste di D.i.Re e che ha incluso luoghi differenti e distanti dalla metodologia dei Centri antiviolenza storici, come molte associazioni che non si occupano specificatamente di violenza contro le donne (ad esempio il Movimento per la Vita e altre).
Il 24 luglio D.i.Re e altre organizzazioni non governative hanno presentato il Rapporto sull’attuazione della Piattaforma di Pechino per il quinquennio 2009-2014 per spiegare che cosa veramente è stato fatto dal Governo italiano in tema di diritti delle donne. Uno dei punti critici è la mancanza di chiarezza e di omogeneità, a livello nazionale, della definizione di Centro Antiviolenza e dei criteri atti a definire le caratteristiche dei servizi e delle strutture finalizzate ad accogliere ed ospitare le donne ed i loro figli. Inoltre manca la definizione e il riconoscimento della figura dell’operatrice di accoglienza. Oggi qualunque luogo può fregiarsi della qualifica di ‘Centro antiviolenza’ e può operare senza alcuna verifica delle competenze e della metodologia che attua ma soprattutto non è tenuto ad informare la donna sulla differenza tra luogo istituzionale e luogo privato. Le donne che chiedono aiuto devono sapere come lavorano i Centri Antiviolenza a cui si rivolgono, che siano pubblici o privati, e devono poter scegliere se affidarsi, dopo aver ricevuto tutte le informazioni necessarie.
Il 24 luglio D.i.Re e altre organizzazioni non governative hanno presentato il Rapporto sull’attuazione della Piattaforma di Pechino per il quinquennio 2009-2014 per spiegare che cosa veramente è stato fatto dal Governo italiano in tema di diritti delle donne. Uno dei punti critici è la mancanza di chiarezza e di omogeneità, a livello nazionale, della definizione di Centro Antiviolenza e dei criteri atti a definire le caratteristiche dei servizi e delle strutture finalizzate ad accogliere ed ospitare le donne ed i loro figli. Inoltre manca la definizione e il riconoscimento della figura dell’operatrice di accoglienza. Oggi qualunque luogo può fregiarsi della qualifica di ‘Centro antiviolenza’ e può operare senza alcuna verifica delle competenze e della metodologia che attua ma soprattutto non è tenuto ad informare la donna sulla differenza tra luogo istituzionale e luogo privato. Le donne che chiedono aiuto devono sapere come lavorano i Centri Antiviolenza a cui si rivolgono, che siano pubblici o privati, e devono poter scegliere se affidarsi, dopo aver ricevuto tutte le informazioni necessarie.
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